lunedì 28 luglio 2014

Addio Pablo

"Pablo non c'è più".

E' una delle sere più belle da quando viviamo qui, Pablo, quella in cui hai scelto di andartene. Beh no, non è proprio così la faccenda. E' la sera in cui io ho scelto che tu te ne andassi. Credimi, Pablo, non avrei voluto che finisse così. Lo so, è molto comodo e consolante, ora che io sono qui a picchiar le dita sulla tastiera e tu sei là, sotto i pioppi. Ricordi? Ti ci avevo portato, un bel po' di tempo fa, alla peschiera di Virle, insieme ai cagnoni di Giorgio, quella bella Sanbernardo un po' grossolana e quel buffissimo botolo, Pluto. Ricordi le oche? Non sapevi cosa fossero, a momenti ti butti in acqua per l'entusiasmo, o forse perché avevi intuito che potesse trattarsi di qualcosa di commestibile.
Non sono qui per dirti adesso che le oche, le anatre, gli aironi ed il suono del vento tra le foglie dei pioppi ti terranno compagnia per l'eternità, perché so bene che non c'è nessuna eternità, anche se un po' invidio chi riesce a credere il contrario. Mi sarebbe di grande aiuto, adesso, poter credere il contrario. Purtroppo l'unica eternità, o comunque ciò che, rispetto alla breve esistenza a noi concessa, si può approssimare all'eternità, è quella per cui diverrai parte della terra che ora ti ricopre, per ragioni biologiche però, non spirituali.

Ho scelto io, ma solo perché non avevo scelta. Oh, lo so, non è di grande conforto, questo, per te. Non allevia affatto il peso di quel metro abbondante di zolle umide che ti pesa sul capoccione. Già l'anno scorso, più o meno a quest'epoca dell'estate, ero giunta ad un passo dalla decisione. Poi la clinica, il ricovero e, da quel momento senza più sosta, le medicine, le garze, le bende per la ferita all'inguine, quella brutta piaga proprio in corrispondenza del sostegno del tuo carrellino. Un supplizio, però a quel guaio avevamo messo una toppa. Poi la zampa che gonfiava: e qui chissà quante notti il buon Matteo ha passato in bianco per realizzarti un nuovo carrellino che potesse alleviare i guai della tua circolazione sanguigna precaria ed a singhiozzo. Qualche settimana di pace qua e là e poi un nuovo guaio, una nuova toppa, ora la sbucciatura, ora il gonfiore, ora la pipì con sangue... Ma sei sempre stato un tipo tosto, uno che tira avanti con la decisione di un caterpiller, uno che, con la stessa decisione, prende a capocciate i tronchi degli alberi: in senso metaforico ma anche reale; il ciliegio, qui in giardino, porta ancora i segni della collisione con il tuo cranio. C'è anche da dire che per te si è mobilitato mezzo mondo, tra cui il tuo fedelissimo dottore. Senza di lui, sarebbe stato tutto molto, ma molto più difficile. Dulcis in fundo, nella disgrazia, avevi un'immensa fortuna, quella di non provare alcun dolore, o meglio, di non avere alcuna sensibilità da metà schiena in giù.

Ma poi quella zampa, la posteriore sinistra. Subdola, ha cominciato a gonfiare, ma poco. Nulla di preoccupante. Almeno all'inizio. Poi, sempre di più, ancora di più. Una ferita, aperta chissà come grazie ad una delle tue tante corse folli con ribaltamento giù per il pendio. Uno dei tanti guai. per giorni e settimane, situazione stabile senza novità, fiumi di disinfettante e pulizie... E poi, la stagione calda, le mosche, gli antiparassitari, la zampa che gonfia a dismisura. La cancrena, già avanzata. Quella domenica pomeriggio, addormentato sul tavolo del dottore, la prima sentenza: "Se questo fosse il cane di un cliente qualsiasi, lo sopprimerei adesso. E' il tuo cane e per questo non lo faccio, ma sappi che è da fare". Poi, siccome ogni sentenza civile concede una possibilità di appello, ci si prova ancora: è il tuo dottore a prendere il coraggio a quattro mani, quasi cinque direi, tentando ancora la strada dell'amputazione della zampa, a livello dell'articolazione, mentre io, fuori dall'ambulatorio, scavo un fossato a furia di camminare avanti ed indietro. Perdonami ma non sarei stata fisicamente in grado di assistere. Ne esci vivo: addormentato, con un pezzetto in meno, ma vivo. Sono io che, per poco, non ci lascio le piume, a vedere il moncherino pelato e cucito con tanto di ricamo a punto croce, a respirare l'aria satura dell'odore del sangue e dei disinfettanti. Resisto quel tanto che basta per dare una mano a piazzarti sulla brandina, per la prima notte da dormire con un occhio solo. E non ti dico che gioia, farti le medicazioni. Lo so, è nulla il mio disagio, in confronto al tuo; sei tu che ci hai rimesso mezza zampa. Ma tu non senti nulla; quella zampa, già prima, era come se non ci fosse...

Purtroppo, la porzione di pelle e di muscolo destinata a ricoprire l'osso, asportata la parte necrotica, è molto risicata. Il dottore mi avverte subito: non è affatto scontato che la ferita non si riapra. E' un tentativo. Già, un tentativo in più quando io ero già quasi rassegnata all'idea di perderti. Ero molto scettica, lo ammetto, circa l'opportunità di questo intervento: mi sembrava una forma di accanimento terapeutico, una crudeltà inutile. Però, d'altra parte, mi son detta, "è anche vero che lui non sente dolore. Perché non provarci davvero?".

Non che ci credessi molto, ma mi sono abituata in fretta a vederti con il moncherino fasciato di bianco, In fondo, era cambiato poco, rispetto a prima. Era solo una questione estetica. Ti ho viziato, in questi ultimi quattro giorni, devi ammetterlo. Manicaretti e coccole. Dovevo farmi perdonare di averti più volte tempestato di scapaccioni e seriamente minacciato di morte quando hai tentato di uccidere il piccolo Paolino. Ora sì, ne provo rimorso, anche se la cosa suona parecchio ipocrita: però devi riconoscere che sei stato davvero una carogna con lui... Lo hai aggredito, lo hai ferito, lo hai costretto alla clausura, tutto perché sei sempre stato un cagnaccio ottuso e prepotente. Hai terrorizzato lui ed anche me. Ti ho odiato, lo sai? Sì che lo sai, te l'ho sibilato parecchie volte. Ti ho odiato davvero, almeno tanto quanto ho provato pena per il povero Paolino che invece è un cagnino piccolo, simpaticissimo e molto furbetto. Senza mai farti mancare nulla di ciò che mi ero impegnata a darti quando ti ho caricato in aereo e portato a casa, ti ho comunque odiato un bel po'. Ho smesso solo quando ho avuto sentore che non mi sarebbe più rimasto molto tempo per volerti bene. E tu, che, da quel testone stupidone che eri, avevi appena capito, dopo mesi e mesi, cosa volesse dire "prendi la palla"... Senza rancore, in quel momento mi hai portato la palla.

Ora non so se infliggerti l'amputazione sia stata la scelta migliore. Forse lo è stata per i cuori di chi ti ha amato, per liberarsi almeno del dubbio corrosivo di non aver tentato tutto il possibile. Certo non avrei mai voluto decidere, oggi, di dirti addio così, insomma, inutile girarci attorno: di ucciderti. Tu avevi voglia di vivere, di giocare, di abbaiare, e neanche percepivi la cancrena che ti stava divorando la zampa. Se fossi stato un cane sofferente, non avrei avuto dubbi. Ma tu oggi hai giocato con la palla, hai mangiato l'insalata di riso con le olive ed il pollo. Certo, non eri più l'incontenibile giocherellone di qualche tempo fa; il tuo corpo risentiva di tutte le frecce che il tuo destino balordo ti aveva inflitto. Ti ho portato a passeggio, ti ho caricato in auto, ho ascoltato con il cuore in gola il tuo insolito, immobile silenzio, che so di non poter associare, come vorrebbe la suggestione, al fatto che tu avessi capito il perché di quel viaggio. Guardavo, lungo la strada, la corona di montagne limpidissime, dopo tanti giorni di pioggia. Mi pareva un insulto, ma le montagne non ne avevano colpa.

Ti metto nelle mani di Giorgio a pochi passi dalla peschiera. So che non fa alcuna differenza, ma lì, sull'erba, tra il campo di granturco ed i pioppi... Piuttosto che sul tavolaccio di metallo. L'eco dei latrati di un cane in una casa poco lontana, un bel rottweiler con un testone come il tuo, risveglia il tuo istinto guerriero ed il tuo vocione... Ma l'anestesia ti sta già via le forze. Ti accucci, addormentato, proprio come facevi nel tuo cassettone. Come ti vedevo qualche volta al mattino presto, troppo presto, quand'era ancora buio e non volevi saperne di mettere le ruote. Anche qui, adesso, sembri un cucciolo troppo cresciuto, con la zampona sotto il muso a mo' di cuscino. Ti accarezzo la testa. Non ho il coraggio di guardare l'ago.

"Non c'è più". Questa volta, è l'ultimo grado di giudizio. 27 marzo 2013, 27 luglio 2014, una coincidenza, sedici mesi insieme. Per te, poco più di diciannove mesi di vita, troppo pochi. Ti devo tanto, Pablo, mi hai tirata via per i capelli dal pozzo in cui stavo per cadere, sei stato il calcio nel didietro che mi ha dato la spinta per cambiare tutto, casa e vita. Qualcuno ancora dice che costringerti a vivere, da paralitico, sia stato un atto di egoismo e crudeltà. Che un cane come te avrebbe dovuto essere soppresso subito. Io non ho ancora, adesso, l'animo di scorrere le tue fotografie, ma il cervello non si ferma, rumina e ricorda, ti vede correre come un forsennato, prima con il sospensore e la sottoscritta che ti caracolla dietro, e poi con le ruote, libero. Certo, non hai potuto vivere appieno da cane quattrozampe, ma ci sei andato molto, molto vicino, hai abbattuto un sacco di confini e superato, letteralmente, innumerevoli scalini. Ora è tutto finito. Torno a casa con il cuore sbriciolato come ghiaia: dalla cancellata mi attendono i tuoi fratelloni pelosi... Solo questa mattina, dietro di loro sei arrivato anche tu, con le rotelle, appena risalito dal fondo del giardino, con le enormi orecchie dritte e quei tuoi disgustosissimi candelotti di bava dalle labbra pendule. Stasera, dietro di loro, il tuo carrellino, immobile, vuoto. Dimmelo tu, Pablo: è valsa la pena, di vivere? Perdonami se ti metto in bocca una risposta che tu non hai pronunciato; forse non l'hai espressa con le parole, ma io sono certa che, con gli occhi, tu mi abbia detto almeno mille volte sì...


Grazie di cuore:
a Tanya e Filomena, che hanno salvato e curato un piccolissimo Pablo;
al dottor Giorgio Monasterolo, che non ha mai fatto mancare la sua assistenza, anche e soprattutto nelle ore e nei giorni meno ortodossi: notti, sabati, domeniche e feste comandate;
ad Alessandro di "Carrellini del Mago", che ha montato Pablo su ruote;
a Matteo Repetto, che è stato onnipresente sostegno morale e materiale di Pablo e della sua mamma, che ha lavorato di meccanica e carpenteria sul carrellino, che ha fatto da bambinaio al quattrozampe e da parafulmine per l'umana nei suoi momenti più bui;
a mamma, che da mamma non ha mai approvato l'impresa gravosa in cui mi sono buttata con Pablo, ma che lo ha amato quanto me e che per noi si è fatta in quattro, in otto, in sedici e anche di più
a tutti coloro che hanno donato a Pablo un giocattolo, una carezza, una parola, un gesto gentile, e che, vicino o lontani, hanno gioito e sofferto per lui.

Addio Pablo.